Chi sei e cosa fai?
Mi chiamo Vincenzo De Luca e sono professore di Storia dell’Arte.

Come vi siete conosciuti con il presidente Diodato De Maio e come è nata la collaborazione con la Fondazione?
Mi lega a Diodato un’antica frequentazione (ai tempi del servizio militare) diventata col tempo amicizia fraterna. Ci conosciamo da oltre un quarto di secolo, l’assiduità dei nostri incontri è come un fiume carsico, latente per qualche tempo per poi riemergere e palesarsi in progetti comuni. Ho visto nascere la Fondazione, collaborando con Diodato all’ideazione e alla stesura degli obiettivi. L’intero corpo della Fondazione poggia le basi su progetti culturali realizzati precedentemente assieme.

Cosa ti ha spinto a prendere parte al progetto?
Chi vede nascere un progetto, addirittura chi ne è (anche se solo in parte) garante, lo porta avanti come si cresce un figlio, con spirito di responsabilità.

Cosa ti aspetti da questa collaborazione?
Partendo dai progetti realizzati con Diodato ancora prima della Fondazione, ad esempio alcuni prestiti di dipinti al Museo Filangieri di Napoli, fino alle attività messe in campo negli ultimi mesi, certifico un lievitare di interesse intorno al patrimonio che la Fondazione mette a disposizione della collettività.
È questo lo spirito della solidità di una Fondazione, fare da pilastro per l’edificio di tante manifestazioni.

In che modo credi che la Fondazione e in generale l’arte possano aiutare il territorio?
L’arte, quale espressione materica, occupa uno spazio e modifica un territorio, ma si relaziona principalmente con il concetto del tempo: Picasso sosteneva che “l’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità”, è un antidoto alla volgarità di certa cronaca, ingentilisce i costumi, tende a migliorare i rapporti interpersonali.

C’è un’opera/un’artista che ti ha ispirato particolarmente nel corso della tua vita e a cui sei particolarmente legato?
Ogni artista, a suo modo, è un ‘abisso’, ci invita a entrare nella profondità del suo pensiero che si cela nella materia che ha plasmato (la man che ubbidisce all’intelletto, per dirla con Michelangelo); potrei, nelle mie ricerche come studioso, citarne molti. Mi fermo al primo, in ordine di tempo, quando da ragazzo mi fermai davanti alle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio. Fu una folgorazione. Chi entra in quel dipinto non esce più dal mondo della pittura, ne resta incantato e invischiato. Quello è stato il mio battesimo e a quel dipinto sono tornato più volte, nei decenni successivi, anche con linguaggi paralleli, quello teatrale (una mia trilogia andata in scena nella chiesa del Pio Monte della Misericordia) e filmico (documentari sui significati del dipinto e sulle fasi del restauro).